Raul Mordenti
1. La temperie politico-culturale e il titolo stesso dell’incontro triestino[1] (che non si limita al libro di Giuseppe Vacca ma pone al centro “Il recente caso Gramsci: una questione scientifica o una polemica politica?”) ci impongono di considerare il problema del revisionismo che ha preso di mira Gramsci in questi ultimi mesi, in altre parole di porre il problema se anche il libro di Vacca si inserisca nella linea di aggressivo revisionismo gramsciano (anti-gramsciano) oppure, al contrario, se esso sia un contributo alla verità storica e dunque, in quanto tale e già solo per questo motivo, sia un modo di combattere quel revisionismo; la falsità storica delle argomentazioni è infatti costitutiva del revisionismo (e lo è anche un livello scientifico basso e talvolta francamente impresentabile), dunque produrre storia, storia documentata, e proporre interpretazioni appoggiate solidamente sui testi sono certamente il modo migliore di combattere il rivisionismo.
Si pone dunque un problema preliminare: che cosa è il revisionismo storico, o almeno come propongo di intenderlo in questo ragionamento?
Cercherò di rispondere anche sulla base di un bel seminario della International Gramsci Society-Italia svolto presso la Fondazione Basso il 19 ottobre scorso, con Liguori, Santomassimo, D’Orsi e Voza, intitolato appunto “Revisionismo storico e dibattito su Gramsci”. Superfluo dire in questa sede che il revisionismo non ha nulla a che fare con la necessaria e fisiologica revisione della storia operata dalla ricerca storica sulla base dell’emergere di documenti nuovi o, semplicemente, di punti di vista e di spunti nuovi. Proprio per evitare ogni possibile confusione fra revisionismo e revisione storica, apparirebbe più utile il termine di “rovescismo”, che Angelo D’Orsi propone per designare le riscritture della storia à la Pansa, cioè ispirate a scopi propagandistici o di revanscista polemica politica, senza alcun rapporto con la ricerca storica vera ed anzi in aperto contrasto con essa. Senza voler ripercorrere l’utilissima storia del concetto e del termine “revisionismo” proposta da Gian Pasquale Santomassimo in quel seminario romano, mi limiterò a riproporre qui la definizione di revisionismo avanzata da Guido Liguori:
“(…) un movimento culturale che ha accompagnato la controffensiva neoconservatrice degli ultimi decenni, che ha cambiato il clima della cultura diffusa italiana ed europea, che ha imposto un punto di vista di destra nel senso comune, operando molecolarmente (…) per imporre tramite i mass-media, la pubblicistica, l’apparato egemonico tutto, un nuovo senso comune di massa, critico verso il marxismo e verso il comunismo.”
Si tratta insomma di una sorta di corrispettivo ideologico di quello sfondamento delle linee del movimento operaio e democratico che la “rivoluzione neo-conservatrice” di Reagan, Thatcher e Berlusconi ha operato sul terreno politico e sociale, cioè della disdetta unilaterale del “grande patto democratico” (chiamamolo così) fra le classi e fra le nazioni con cui l’umanità era uscita dalla crisi catastrofica dei fascismi e della II guerra mondiale.
Quel “patto” riconosceva alla sinistra, al proletariato, al suo sindacato e al suo partito comunista, il ruolo di soggetto, un soggetto avversario di cui si rispettava però il diritto ad esistere, e dunque a ricoprire uno spazio di legittimità (la Costituzione antifascista) e di contrattazione (la pressione sindacale e le riforme del cosiddeto welfare); ora si nega invece in radice qualsivoglia legittimazione della classe operaia: sul terreno sindacale (con la linea Monti-Fornero, che prosegue e accentua le politiche di Tremonti e Sacconi e che risale in realtà a Bettino Craxi), sul terreno politico (con lo scioglimento del PCI e con le leggi elettorali maggioritarie tese a impedire che il conflitto di classe si possa rappresentare nel Parlamento), e dunque anche, necessariamente, qualsivoglia legittimazione deve essere negata alla classe operaia e ai comunisti sul terreno ideologico, culturale e – direi – morale. E siccome Gramsci era stato il pilastro su cui (soprattutto ad opera di Togliatti) si era costruita la piena legittimazione ideologica, culturale e morale del movimento operaio e dei comunisti, ecco allora che Gramsci deve essere colpito.
Se poi si considera che la crisi capitalistica mondiale è tale da riproporre il grande tema della rivoluzione in Occidente oggettivamente (intendo dire: quali che siano i terribili ritardi soggettivi dei comunisti e dei rivoluzionari occidentali) ecco allora che colpire colui che mi sembra essere il più originale teorico della rivoluzione in Occidente diventa ancora più impellente: ci troviamo insomma di fronte a una sorta di operazione contro-egemonica o – se preferite – a una manganellatura ideologica preventiva[2] a cui gli ideologi della borghesia attribuiscono evidentemente grande importanza.
2. Senza cadere in nessuna teoria del complotto, basterà considerare la quantità della campagna di stampa su/contro Gramsci in questi pochi mesi, per capire che ci troviamo di fronte ad un’autentica operazione culturale contro-egemonica: nel mio personale e incompletissimo archivio annovero un paginone intero del “Sole 24 ore”, alcune paginate e innumerevoli interventi del “Corriere della sera”, un lungo articolo dell’“Osservatore Romano” (naturalmente assai “brescianesco”), ben quattro paginoni di “Repubblica” (e quando si parla di operazioni egemoniche il quotidiano di Scalfari va sempre tenuto nel massimo conto) con articoli dedicati (talvolta anche in forma di anticipazioni e o di repliche) agli interventi su Gramsci di Biocca, Lo Piparo, Canfora, il nostro Vacca e Donzelli, a cui è da aggiungere anche il grottesco intervento di apologetica “orsiniana” scritto da Saviano in prima pagina, per non dire di interventi su Gramsci di altri Autori – diciamo così – “minori” come Luca Telese o i giornalisti di Berlusconi; se non cito in questo elenco i numerosi articoli comparsi su l’“Unità” e sul “Manifesto” lo faccio più che altro per personale e inveterata solidarietà con queste testate, ma non perché questi giornali siano stati del tutto esenti da attacchi, a volte assai pesanti, a Gramsci e al suo essere comunista. È questo, lo ripeto, un elenco assai parziale: eppure tutti ricordiamo che di norma eventi scientifici ed editoriali di capitale importanza a proposito di Gramsci passavano del tutto sotto silenzio nella nostra stampa “indipendente”, senza meritarsi neppure un mezzo trafiletto di recensione.
Questa dunque la quantità, davvero singolare, del “caso Gramsci”: ma quale è la qualità di questi interventi? Come si attua questa manganellatura ideologica preventiva contro Gramsci e contro la legittimazione ideale dei comunisti? Essa prende due forme: o la forma dell’attacco diretto (e spesso volgare) a Gramsci stesso, alla sua figura intellettuale e morale (è – diciamo così – la “forma Orsini”); ma, se questa via (per la statura stessa del nostro personaggio) si rivela impraticabile, allora la manganellatura prende una seconda forma, quella della separazione fra Gramsci e il marxismo e, in particolare, fra Gramsci e il Partito Comunista Italiano, dunque fra Gramsci e Togliatti.
Insomma: o distruggere Gramsci in quanto tale o, almeno, separarlo e contrapporlo al comunismo.
Per questa via, la via del “rovescismo”, Gramsci deve essere dipinto non più come il comunista incarcerato e ucciso dal fascismo e da Mussolini in prima persona ma come l’ex-comunista ora divenuto liberal-democratico incarcerato e ucciso dai comunisti e da Togliatti in prima persona; per quanto questo rovesciamento della verità possa apparirvi, ed effettivamente sia, mostruoso tuttavia la potenza dei media borghesi e l’impotenza nostra è tale che una simile immagine rovesciata – se non facciamo tutti insieme qualcosa per difendere la verità delle cose – potrà apparire fra qualche anno del tutto normale ai nostri giovani.
3. Se questo è dunque il quadro generale del “recente caso Gramsci”, come si colloca in esso il libro di Giuseppe Vacca?
Dico subito, in premessa, che – per la quantità e la qualità dell’informazione storica anche inedita – occorre certo distinguere questo libro dalla serie dei Biocca, degli Orsini o dei Lo Piparo etc.; anche se resta per me da capire come mai da parte di Vacca sia mancata sempre (e manchi del tutto anche nel volume di cui parliamo) una smentita esplicita e una messa a punto anche polemica nei confronti almeno delle parti più infamanti e oltraggiose di quei lavori, un gesto che, francamente, ci si sarebbe aspettati da parte del Vacca anche per il ruolo, diciamo così, istituzionale (di Presidente dell’Istituto Gramsci) che egli ricopre: ma forse si tratta solo di un problema di tempi editoriali o – peggio – di distrazione da parte mia.
E dico, ancora in premessa, che non mi soffermerò sulle annotazioni critiche già fatte da Giorgio Fabre (su “Alias/il manifesto” il 17 giugno scorso) a proposito di sviste o veri e propri errori presenti nel libro di cui trattiamo: un fratello di Gramsci presentato infondatamente come federale fascista di Varese; la citazione del IV Congresso del PCdI di Colonia del ’31 che – sembra – non ebbe mai luogo in quella città ma si svolse a Mosca; due date diverse proposte, a poche pagine di distanza, per la consegna dei Quaderni all’ambasciata sovietica da parte di Tania; l’erronea indentificazione del consigliere ambasciata sovietico a Berlino, etc. Ma de minimis non curat pretor, e neppure noi ce ne cureremo (ma almeno una cosa che Fabre segnala non è affatto minima, e ci torneremo in conclusione).
Il punto vero è un altro: è che sarebbe riduttivo considerare e valutare solo come un libro di storia un libro che invece si presenta come una complessiva reinterpretazione di Gramsci, fin dal titolo: Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), dove evidentemente anche quel plurale “pensieri” ha un preciso significato.
4. Noi gramsciani (se posso usare questo termine) disponiamo di uno straordinario vantaggio, cioè possiamo usare per leggere Gramsci un criterio metodico che Gramsci stesso ci fornisce con grande nettezza. Mi riferisco al paragrafo iniziale del Quaderno 4, Appunti di filosofia. Materialismo e idealismo (del ’30-’32 secondo Gerratana) in cui Gramsci spiega come deve essere studiata “una concezione del mondo che non è stata mai dall’autore-pensatore esposta sistematicamente” (p.419[3]). Gramsci si riferisce a Marx, ma parla evidentemente anche di sé. Questo “testo A” diventa “testo C” nel Quaderno 16 (del ’33-’34), precisandosi e arricchendosi; qui Gramsci parla della necessità di:
“fare preliminarmente un lavoro filologico minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica, di lealtà intellettuale, di assenza di ogni preconcetto ed apriorismo o partito preso. Occorre, prima di tutto, ricostruire il processo di sviluppo intellettuale del pensatore dato per identificare gli elementi divenuti stabili e ‘permanenti’, cioè che sono stati assunti come pensiero proprio, diverso e superiore al ‘materiale’ precedentemente studiato e che ha servito da stimolo; solo questi elementi sono momenti essenziali del processo di sviluppo.” (p. 1841)
Essi vanno dunque distinti rigorosamente da ciò che Gramsci chiama gli ‘scarti’, cioè le dottrine e teorie altrui con cui quel pensatore può essersi imbattuto nel corso della sua stessa ricerca. E concludendo:
“La ricerca del leit-motiv, del ritmo del pensiero in isviluppo, deve essere più importante delle singole affermazioni causali e degli aforismi staccati.”(pp.1841-2)
Analoga esigenza di filologia, di “filologia vivente”, si trova nel § 198 del Quaderno 6, in cui Gramsci critica la poco onesta abitudine di “sollecitare i testi”, per la quale egli sembra anche proporre una sorta di sanzione:
“Passato e presente. «Sollecitare i testi». Cioè far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono. (…): ma la trascuratezza e l’incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria?” (p.838)
Dopo aver richiamato un tale metro, vediamo allora di misurare con esso le interpretazioni di Gramsci avanzate da Vacca.
Mi limiterò a due punti cruciali, peraltro strettamente legati:
(I) ciò che chiamerò il presunto post-comunismo o “americanismo” di Gramsci;
(II) i rapporti di Gramsci con il suo partito e con Togliatti, e le eventuali responsabilità di quest’ultimo per la mancata liberazione di Gramsci
5. (I) Parlando dell’attribuzione a Gramsci di una posizione post-comunista e “americanista” non mi sembra di esagerare, dato che mi riferisco ad affermazioni testuali di Vacca, come le seguenti:
“Gli schemi della riproduzione allargata del volume II del Capitale, su cui si basa la pianificazione sovietica, sono in realtà molto più poveri di “elementi di piano” di quanto non sia la regolazione fordista. Il confronto è reso ancora più sfavorevole all’URSS dai contesti storici diversi in cui i due fenomeni si inseriscono. (...) Ma proprio per questo “la necessità immanente di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica” [è questa una citazione di Gramsci che Vacca mette fra virgolette, ma senza alcun riferimento di nota: la citazione è tratta dal paragrafo 1 del Quaderno 22, pp.2319, e su di essa torneremo fra pochissimo, NdR], che pervade la struttura del mondo, procede sotto la direzione della borghesia più moderna, mentre il movimento comunista appare un comprimario, decisivo, perché punto di riferimento di sterminate masse operaie e contadine in tutto il mondo, ma subalterno.”(Vacca, p.140; le sottolineature qui e in seguito sono nostre, NdR)
E ancora:
“Questo ‘passaggio’ [dal vecchio ‘individualismo economico’ alla ‘economia programmatica’, NdR] (…) non può avvenire sotto la direzione del movimento comunista per il carattere primitivo ‘economico-corporativo’ e inespansivo dell’URSS (il carattere rozzo e violento dell’economia di comando, il ‘cesarismo’ staliniano e l’introversione isolazionistica a datare dall’inizio della pianificazione). Nel processo mondiale guidato dall’ ‘americanismo’ il comunismo internazionale è dunque una forza subalterna…” (p.137)
Fino ad arrivare a concludere addirittura:
“Tanto a livello internazionale, quanto in Italia, il processo si caratterizzava globalmente come una ‘rivoluzione passiva’ e l’auspicato concorso dell’Italia alla ricostruzione unitaria dell’economia mondiale avrebbe dovuto svolgersi in un percorso internazionale guidato dalle élite capitalistiche più avanzate. Non si trattava dunque di accumulare le forze per la rivoluzione proletaria, ma di saper prevedere e cogliere i passaggi di tale eventuale percorso per farvi pesare le masse operaie e contadine. La previsone più ottimistica su cui Gramsci fonda le sue ipotesi politiche è che, per impulso degli Stati Uniti, l’interdipendenza dell’economia mondiale venga ripristinata.” (p.149)
Ecco, io penso che Gramsci non abbia mai pensato queste cose che Vacca gli attribuisce, che non le abbia mai scritte, che dunque non sia giusto attribuirgliele “sollecitando” in modo così violento e irrispettoso i suoi testi. Penso che Gramsci si sarebbe fatto ammazzare prima di scrivere che: “(…) ‘la necessità immanente di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica’ (…) procede sotto la direzione della borghesia più moderna, mentre il movimento comunista appare un comprimario, decisivo (…), ma subalterno”; oppure che: “Nel processo mondiale guidato dall’ ‘americanismo’ il comunismo internazionale è dunque una forza subalterna…”; o ancora che: “l’auspicato concorso dell’Italia alla ricostruzione unitaria dell’economia mondiale avrebbe dovuto svolgersi in un percorso internazionale guidato dalle élite capitalistiche più avanzate. Non si trattava dunque di accumulare le forze per la rivoluzione proletaria,…”, etc. Penso anzi che – in un certo senso – Antonio Gramsci si sia effettivamente fatto ammazzare proprio per non sostenere cose come queste, e anzi per combatterle.
E infatti il prosieguo della stessa citazione (dal paragrafo 1 del Quaderno 22, p. 2319 e sgg.) – che come abbiamo visto Vacca taglia in modo così parziale – smentisce radicalmente questa bizzarra tesi di un Gramsci che vedrebbe negli USA la nuova guida della rivoluzione mondiale, e anzi penserebbe addirittura che questa possa avvenire sotto la guida delle “élite capitalistiche più avanzate”! Per Gramsci infatti non è affatto indifferente che il processo di razionalizzazione avvenga sotto la guida della borghesia oppure sotto quella del proletariato (ed è del tutto evidente che qui Gramsci pensa all’URSS, ad es. quando parla di “economia programmatica”); anzi, per il comunista Gramsci proprio il fatto che un tale processo si svolga in America a guida capitalistico-borghese rappresenta l’elemento che lo condanna allo scacco, giacché ad esso le forze subalterne “resistono necessariamente”; scrive Gramsci:
“Si può dire genericamente che l’americanismo e il fordismo risultano dalla necessità immanente di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica [finisce qui il pezzo citato da Vacca, NdR] e che i vari problemi esaminati dovrebbero essere gli anelli della catena che segnano il passaggio appunto dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica: questi problemi nascono dalle varie forme di resistenza che il processo di sviluppo trova al suo svolgimento, resistenze che vengono dalle difficoltà insite nella «societas rerum» e nella «societas hominum».
Che un tentativo progressivo sia iniziato da una o altra forza sociale non è senza conseguenze fondamentali: le forze subalterne, che dovrebbero essere «manipolate» e razionalizzate secondo i nuovi fini, resistono necessariamente.”
E si potrebbe notare, a questo proposito, come Gramsci ricordi che il gruppo ordinovista avesse rifiutato con forza il tentativo di Agnelli di “assorbirlo”, benché l’“Ordine Nuovo” sostenesse “una sua forma di ‘americanismo’ accetta alle masse operaie”. Ma per tornare al nostro testo (il par. 1 del Quaderno 22), è dunque proprio tale necessaria resistenza della classe operaia (“le forze subalterne (…) resistono necessariamente”) ciò che rende intrinsecamente contraddittorio il fordismo e rappresenta la insuperabile debolezza di ogni economia programmatica a direzione capitalistico-borghese; mentre Gramsci continua a guardare non certo all’America ma all’URSS (e tenendo sempre sullo sfondo del suo ragionamento l’esperienza torinese e consiliare dell’“Ordine Nuovo”). Ecco cosa succede a “sollecitare i testi” citandoli parzialmente e astraendo una singola frase dal “ritmo del pensiero in isviluppo”! Succede che il senso di quel pensiero venga addirittura rovesciato[4].
Così, non per caso, fra i problemi (le “quistioni” come lui scrive) che secondo Gramsci il fordismo pone, spicca addirittura l’ipotesi che esso possa determinare una “esplosione” “di tipo francese”, (cioè una rivoluzione); cito dallo stesso paragrafo 1 del Quaderno 22 alla pagina seguente (la 2320):
“(…) 3) quistione se l’americanismo possa costituire un’«epoca» storica, se cioè possa determinare uno svolgimento graduale del tipo, altrove esaminato, delle «rivoluzioni passive» proprie del secolo scorso o se invece rappresenti solo l’accumularsi molecolare di elementi destinati a produrre un’«esplosione», cioè un rivolgimento di tipo francese;”.
Ancora, Gramsci pone la quistione se la stessa razionalizzazione fordista possa essere imposta dall’esterno della classe, cioè se possa avere luogo senza scaturire dall’“intimo del mondo industriale”, senza derivare dall’autogestione dei produttori:
“(…) 5) quistione se lo svolgimento debba avere il punto di partenza nell’intimo del mondo industriale e produttivo o possa avvenire dall’esterno, per la costruzione cautelosa e massiccia di una armatura giuridica formale che guidi dall’esterno gli svolgimenti necessari dell’apparato produttivo;”
E, infine, del tutto marxianamente, Gramsci legge anche il fordismo come un tentativo capitalistico di opporsi alla caduta tendenziale del saggio del profitto:
“7) il fordismo come punto estremo del processo di tentativi successivi da parte dell’industria di superare la legge tendenziale della caduta del saggio del profitto”.
No, davvero Gramsci non è stato il precursore di Walter Veltroni! Il che non significa di per sé, naturalmente, che Veltroni e quelli che la pensano come lui abbiano torto a vedere negli Stati Uniti il paese-guida; solo si ammetta che Gramsci è un’altra cosa e che la pensava diversamente.
6. Naturalmente è legata alla smentita di questa tesi di un Gramsci americano e “veltroniano” anche la smentita di altre tesi corollario che Vacca ne fa discendere a proposito di un Gramsci (diciamo così) post-comunista o militante del PD ante litteram[5]; sia suffciente citare solo alcune di queste affermazioni che mi sembrano francamente infondate, come l’enfatizzazione davvero eccessiva e antistorica della prospettiva della Costituente o come il passo in cui – sempre secondo Vacca – Gramsci sarebbe giunto a una sorta di identificazione fra fascismo e comunismo, che Vacca chiama, chissà perché, “bolscevismo” (si noti, en passant, che Gramsci non usa mai nei Quaderni questo termine, se non citando assai criticamente il movimento dell’“Eurasiatismo”, attivo fra gli emigrati anti-sovietici che “si atteggiano spesso a fascisti russi”: p.180 dei Quaderni).
Cito ancora dal libro di Giuseppe Vacca:
“Gli assetti internazionali del dopoguerra non l’hanno sanato [si parla qui del contrasto fra cosmopolitismo dell’economia e nazionalismo della politica che a Vacca appare essere la contraddizione fondamentale, NdR], anzi l’hanno esasperato; e i due movimenti politici nuovi originati dalla guerra, il bolscevismo e il fascismo, non lo possono risolvere perché appaiono entrambi caratterizzati da un limite ‘economico-corporativo’.” (p.138)
Non posso che ripetere che io penso che Gramsci si sarebbe fatto ammazzare prima di scrivere cose come queste, e che comunque (ed è ciò che a noi più deve importare) non le scrisse mai.
7. Siamo così venuti al II punto, quello dei difficili rapporti di Gramsci con il PCI e con Togliatti.
Vacca intitola un intero suo capitoletto “L’eterodossia gramsciana”, enfatizzando oltre ogni limite la lettera scritta da Gramsci, il 14 ottobre del 1926 al CC del PCUS, e non inoltrata da Togliatti. In realtà quella lettera (ammesso, come anche io credo, che Stalin l’abbia poi finito con conoscerla) non determina affatto
“un’eterodossia insanabile agli occhi della leadership staliniana” (p.23),
e meno che mai determina una frattura definitiva con Togliatti. Gramsci, pur riservandosi di discuterne, aveva comunque accettato la decisione di Togliatti (peraltro giusta: ma non è questa la sede per discuterla) di non inoltrare la lettera; per la decisione in merito Gramsci si era rimesso insomma a Togliatti, che si trovava a Mosca e conosceva ciò che era effettivamente accaduto nel gruppo dirigente sovietico; fra compagni infatti si discute, o almeno si discuteva fra quei compagni di quella generazione e di quel livello, e si discuteva molto fra Gramsci e Togliatti, senza che la discussione portasse mai a insanabili rotture fra loro. D’altra parte Vacca stesso ammette che quella lettera di Gramsci “conteneva una netta presa di posizione a favore della strategia del ‘socialismo in un solo paese’ (...)” (p.24) e si schierava con decisione contro l’altra linea, quella trotzkista della “rivoluzione permanente” (nei confronti della quale – come è ben noto – anche nei Quaderni Gramsci ha parole durissime).
Lo sforzo di far passare Gramsci per un cripto-trotzkista è veramente del tutto privo di appigli testuali. A p.8 del suo libro Vacca scrive: “le posizioni di Trockij, viste allora da Gramsci con favore”, e cita (incautamente, verrebbe da dire) le pp.186-188 de La formazione del gruppo dirigente del partito comunista italiano nel 1923-1924 curato da Togliatti[6]; ma il problema è che in quelle pagine c’è una lettera di Gramsci scritta a Vienna il 9 febbraio 1924 che dice l’esatto contrario di un apprezzamento di Trotzkij! È tutta una requisitoria contro il “Manifesto della sinistra comunista” proposto da Bordiga che Gramsci stigmatizza come “l’inizio di una battaglia a fondo contro l’Internazionale”. Leggiamo proprio lì, a p.187, che Gramsci – dopo aver criticato le visioni meramente “topografiche” del gruppo dirigente dell’Internazionale (Radek, Trotzkij e Bukharin a sinistra, Zinoviev, Kamenev e Stalin a destra, Lenin al centro) come “assolutamente illusorie e fallaci” – scrive:
“Il nucleo cosiddetto leninista (…) ha continuamente dimostrato come i cosiddetti sinistri non siano altro che dei menscevichi che si ammantano di linguaggio rivoluzionario, mentre sono incapaci di valutare i reali rapporti delle forze effettive. È noto infatti che in tutta la storia del movimento rivoluzionario russo Trotzki era politicamente più a sinistra dei bolscevichi, mentre nelle questioni di organizzazione spesso faceva blocco o addirittura si confondeva con i menscevichi.”
E prosegue con la ben nota serie di accuse degli errori di Trotzkij nel 1905, nel 1917 etc.
Né si può credere che una intelligenza politica come quella di Gramsci pensasse davvero ciò che Vacca gli attribuisce, cioè che in quella temperie politica si potesse essere al tempo stesso:
“in netto dissenso non solo dalla linea di Trockij ma anche dalla politica del Komintern e di Stalin.” (Vacca, p.27).
Ma dove mai era questa terza posizione? E in quali altri testi Gramsci l’avrebbe espressa? Per sostenere la sua tesi Vacca deve infatti ammettere che le posizioni espresse in quella lettera del 14 ottobre rivelano “una sensibile evoluzione del pensiero di Gramsci rispetto alle Tesi di Lione” (p.29) e perfino che “nell’analisi della situazione egli impiega altri concetti e un’altra metodologia rispetto a quelli del bolscevismo”(p.29). Sembra operare anche qui lo sforzo del Vacca di “sollecitare i testi” oltre ogni limite.
Non si può non ricordare peraltro che Gramsci stesso definisce la sua lettera del 14 ottobre ’26 “tutta una requisitoria contro le opposizioni”. E anche quando torna sulla questione nei Quaderni lo fa sempre per sostenere la giustezza fondamentale della poltica del PCUS e del Komintern, e dunque della maggioranza di allora Stalin-Bucharin, soprattutto perché questa (a differenza di Trotzkij) teneva ferma l’alleanza operai-contadini senza la quale – secondo Gramsci – l’esperienza sovietica sarebbe crollata.
8. Si potrebbe dire che, sul piano della teoria politica, cade dunque del tutto il pilastro di ciò che Vacca definisce il “contrasto insanabile” di Gramsci con il Komintern e di conseguenza anche con il PCI. E con esso cade, o dovrebbe cadere, anche la possibilità di costruire credibilmente la narrazione di un Gramsci cripto-trotzkista, per questo motivo inviso a Stalin e per questo motivo osteggiato anche dal perfido stalinista Togliatti.
Ma poiché il piano della teoria politica resta sempre opinabile, verifichiamo la credibilità di questa storia sul piano dei fatti: il PCI e Togliatti abbandonarono mai Gramsci in carcere? Smisero mai di assisterlo, di aiutarlo, di farlo curare (nei limiti del possibile), di fargli arrivare libri, materiali, informazioni? Di sostenere in tutti i modi possibili la sua famiglia in Russia?[7] Di chiedergli perfino (tramite il fratello) pareri e consigli in carcere? Di pubblicare, mentre era in carcere, i suoi scritti inediti (La questione meridionale) come se egli fosse ancora il massimo dirigente del Partito tuttora in carica? Gramsci fu forse trattato dal PCI e da Togliatti come – ad esempio – venne trattato Bordiga, o altri da cui davvero li separava un “contrasto insanabile”? Al contrario: il PCI e Togliatti non smisero mai di progettare la liberazione di Gramsci e di lavorarci, di inventarsi possibili scambi di prigioniseri tramite il Vaticano o con i superstiti del dirigibile “Italia”, e così via (come anche il libro di Vacca testimonia ampiamente). E Gramsci da parte sua era perfettamente cosciente di essere il punto terminale di una “linea” ininterrotta di comunicazione e di assistenza che da Tania passava per Sraffa e arrivava fino a Togliatti e ai comunisti italiani (chi altri è “l’avvocato” a cui dice di sentirsi legato perfino più che agli affetti più cari, nella terribile, disperata lettera del 27 febbraio 1933?).
Nonostante tutti questi dati (ripeto: dati) il “processo” (chiamiamolo così) intentato dal revisionismo storico contro il PCI e contro Togliatti si svolge assumendo tratti kafkiani (o se si preferisce staliniani), giacché a questi imputati si rimproverano, e contemporaneamente!, due cose contraddittorie, così che ogni difesa diventa davvero impossibile. Mi spiego; esistono a proposito della liberazione di Gramsci due tesi contrapposte, fra le quali occorre scegliere: (prima tesi) l’attenzione interna e internazionale su Gramsci prigioniero andava tenuta desta, per arrivare con ostinate campagne di solidarietà alla liberazione di Gramsci, oppure – al contrario – (seconda tesi) era meglio fare del tutto silenzio attorno a Gramsci, magari per favorire un atto di graziosa liberalità da parte di Mussolini? Si può sostenere una tesi oppure l’altra: ad esempio i funzionari del regime fascista che si occuparono dei reiterati tentativi comunisti di liberazione di Gramsci sostenevano (non per caso) la seconda tesi e, ad un certo punto della sua terribile crisi psico-fisica, sembra che lo stesso Gramsci la faccia sua (e io oso dire che Gramsci in questo si sbagliava: ebbene sì, anche Gramsci in qualche momento poteva sbagliarsi, specie se immerso in quel mare di sofferenza); mentre il PCI e Togliatti optarono, pur fra mille comprensibili difficoltà, per la prima tesi, cioè per la necessità di cercare di liberare Gramsci con campagne di massa antifasciste[8]. Se si sceglie la prima tesi si può accusare Togliatti per non aver fatto abbastanza, se si sceglie la seconda per aver fatto troppo. Si può – ripeto – scegliere l’una o l’altra tesi; quello che non si può fare è … sceglierle tutte e due, e contemporaneamente, come talvolta anche Vacca sembra fare. A p. 352 del suo libro egli scrive (e all’interno di una stessa frase!):
“Infine, le campagne per la liberazione dei prigionieri erano uno strumento irrinunciabile della lotta al fascismo e quella del 1934 aveva avuto sviluppi tali da influire favorevolmente sulla concessione della libertà condizionata a Gramsci. Certo, esse avevano un’influenza perniciosa sulle possibilità di una sua liberazione per via diplomatica.” (p.352)
Verrebbe da dire che qui occorre decidersi: delle due l’una. Vacca sembra decidersi quando scrive (appena quattro righe dopo):
“I sospetti di macchinazione che Gramsci attribuiva al suo comportamento [di Togliatti, NdR] appaiono quindi infondati” (p.352),
e poco prima aveva del tutto smontato un altro supposto pilastro della teoria della macchinazione, quello relativo alla lettera di Grieco:
“(…) crediamo di aver documentato la totale irrilevanza della lettera di Grieco” (p.352),
conclusione che appare giusta, e che Vacca ritiene di aver dimostrato da molti punti di vista.
Aggiungo che forse il Nostro avrebbe scritto queste parole con ancora maggiore convinzione se avesse preso in esame i documenti vaticani che Giorgio Fabre richiama nella sua citata recensione critica su “Alias” a Vita e pensieri di Antonio Gramsci. Quei documenti dimostrano come nel tentativo di liberazione del 1927 fosse chiarissimo fin dall’inizio all’interlocutore fascista, e anzi quasi ufficiale, che se il tramite era l’ambasciata sovietica a Berlino nella persona di Bratman-Brodowski, i veri promotori dell’iniziativa erano però i comunisti italiani (“les amis de Gramsci”); ma così l’accusa a Grieco di aver lasciato trapelare tramite la “strana lettera” il segreto sul ruolo dei comunisti italiani, che sarebbe stato ignoto al governo fascista, viene del tutto a cadere. In tal modo si spiegano sia la sorpresa di Grieco, Togliatti e Terracini (destinatario, come è noto, di una identica lettera di Grieco) di fronte ai sospetti di Gramsci, sia la mancata utilizzazione di quella lettera come capo d’accusa nel processo fascista contro Gramsci, sia la piena assoluzione dello stesso Togliatti nell’inchiesta avviata dall’Internazionale a Mosca per iniziativa delle sorelle Schucht (in anni, ricordiamocelo, in cui per molto meno nell’URSS staliniana i comunisti rischiavano la vita).
9. Ma allora non possiamo non domandarci: se la campagna per la liberazione non fu una colpa (anzi!), se l’attività del Partito volta a sostenere Gramsci o a liberarlo fu costante e generosa, se la lettera di Grieco (di cui Togliatti sarebbe stato il diabolico ispiratore) non fu affatto una provocazione e comunque fu del tutto irrilevante ai fini processuali, e se infine (come è del tutto innegabile) dobbiamo a Togliatti il salvataggio, la pubblicazione e la diffusione dei Quaderni e del pensiero di Gramsci, anzi addirittura la costruzione del suo mito, di cosa mai allora si può accusare Togliatti? Vacca formula apertamente questa domanda cruciale a conclusione del suo lavoro:
“Ma c’era anche un interesse di Togliatti a sabotare la liberazione di Gramsci?”
La risposta che Giuseppe Vacca si dà e propone ai suoi lettori costituisce – mi sia permesso annotarlo – il punto massimo del mio personale dissenso con lui; la cito dunque per intero:
“Ma c’era anche un interesse di Togliatti a sabotare la liberazione di Gramsci? Non si può escluderlo, ma la ricostruzione dei fatti che abbiamo potuto compiere suggerisce una risposta che si può riassumere così: Togliatti non aveva bisogno di sabotare tentativi di liberazione che, in realtà, non furono mai compiuti seriamente dall’unico attore che poteva intraprenderli, vale a dire il governo sovietico. Adoperando un linguaggio più ‘familiare’, a tenere Gramsci in carcere ci pensava già Mussolini e la sua liberazione non aveva mai configurato l’oggetto d’un interesse statale sovietico. Non si vede, quindi, che cosa Togliatti avrebbe potuto aggiungere di suo.” (p.353; sottolineature nostre, NdR)
Tradotto in linguaggio ancora più ‘familiare’: che Togliatti sia stato un infame traditore “non si può escluderlo” (sic!), ma siccome il governo sovietico (Stalin) è stato ancora più cattivo di lui, allora Togliatti “non aveva bisogno” (sic!) di tradire e nulla avrebbe potuto “aggiungere di suo” (sic!) al tradimento ai danni di Gramsci. No, professor Giuseppe Vacca, non ci basta! Davvero questo non ci basta e non ci può bastare dal Presidente dell’Istituto Gramsci fondato da Palmiro Togliatti.
Credo che questi comunisti morti (penso ora soprattutto a Gramsci e a Togliatti), come peraltro tutti i morti, abbiano una sorta di diritto a esser ricordati nella verità (Giuseppe Prestipino ha scritto: “con accorata pietà e rispetto”), e credo che il dovere di garantire questo, se spetta a tutti gli studiosi degni di questo nome, tanto più compete a chi con loro collaborò e, magari, li incensò esageratamente in vita (chissà perché, ripenso al manzoniano: “Vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”).
Ma come scrive Benjamin (nella sue tesi Sul concetto di storia): “neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”.
Raul Mordenti
[1] Questo testo recupera largamente la relazione presentata all’incontro organizzato in occasione della pubblicazione del volume di G. Vacca dall’Istituto Gramsci del Friuli-Venezia Giulia (a Trieste l’8 novembre 2012): “Il recente caso Gramsci: una questione scientifica o una polemica politica?”, con Fabio Frosini, Raul Mordenti, Giusppe Vacca e Marina Paladini.
[2] Cfr. R. Mordenti, Le manganellate ideologiche preventive contro Gramsci e l’idea di rivoluzione in Occidente, in “Liberaroma” (http://www.liberaroma.it/word/senza-categoria/1711/. Da vedere una rassegna della discussione “rovescista” su Gramsci in “Historia Magistra” dell’aprile 2012 (www.historiamagistra.it).
[3] Le citazioni dei Quaderni di Gramsci fanno riferimento alle pagine dell’edizione dell’Istituto Gramsci in 4 volumi, curata da Valentino Gerratana per Einaudi nel 1975.
[4] È capitato a chi scrive, in anni giovanili e lontani, di documentare la brutta abitudine di Vacca di citare troppo parzialmente e tendenziosamente i suoi testi rovesciandone il senso politico (in quel caso si trattava di Togliatti); un articolo a firma “traum” comparso sul “Lavoratore” del maggio 1923, veniva da lui presentato come la lungimirante prefigurazione togliattiana di una politica di alleanze fra classe operaia e intellettuali di tipo berlingueriano, ma omettendo dalla citazione le due righe in cui “traum” concludeva: “E nessuno dovrà stupirsi se questa classe farà quello che hanno fatto in Russia gli operai e i contadini dei loro ‘intellettuali’. Li manderà cioè a finire nelle forche.” Mi permetto di rinviare qui a quel lavoro, ormai come a una mera curiosità bibliografica: R. Mordenti, Appunti sul Togliatti di Giuseppe Vacca, in “Il Ponte”, a.XXXIV, n.9 (settembre 1978), pp. 1006-1025 (1012).
[5] Si veda, ad esempio, l’affermazione seguente: “Ma la critica di Gramsci non colpiva solo il ‘marxismo-leninismo’ in versione staliniana, bensì il marxismo sovietico nel suo complesso” (p.209); dunque – sembra di capire – la critica di Gramsci sarebbe rivolta anche a Lenin, e al complesso del suo marxismo? Mancano del tutto in questo caso, et pour cause, i rinvii ai testi in cui Gramsci sosterrebbe tale critica.
[6] Roma, Editori Riuniti, 1962.
[7] Commoventi sono al riguardo le recenti testimonianze di Antonio Gramsci jr.
[8] Questa era peraltro la prassi normale per l’Internazionale a sostegno dei comunisti incarcerati dal fascismo, una prassi che Gramsci conosceva bene e aveva condiviso.