Che senso ha parlare di videogiochi in modo scientifico, e perché è necessario studiarli? Un videogioco può suscitare emozioni, farci amare, spaventare o commuovere? Può far riflettere o insegnare? Cosa lo rende unico, diverso da ogni altro medium, e in che modo può essere sfruttato? Chi sono i suoi utenti ideali, qual è il suo iter creativo e le figure professionali che si nascondono dietro il prodotto confezionato che arriva sugli scaffali di negozi specializzati, librerie o supermercati? Questi sono solo alcuni dei temi affrontati in Il videogioco. Mercato, giochi e giocatori, testo scritto a quattro mani da Francesca Vannucchi e Marco Accordi Rickards e appena pubblicato da Mondadori Università.
Il videogioco è un medium che ricopre ormai un ruolo centrale nella cultura occidentale e che è entrato in maniera pervasiva nella maggior parte delle case; tuttavia, sebbene sia in grado di mescolare in modo complesso tra loro generi e linguaggi, media e tecnologia, ancora oggi è oggetto di pregiudizi e stigma: nient'altro che un video-gioco, nel senso più blando possibile. Le cose, secondo i due autori, sono ben diverse.
Partendo dalla propria esperienza professionale, Vannucchi e Accordi Rickards dissezionano e analizzano il ʻdietro le quinteʼ della produzione e del mercato videoludico, i suoi giocatori e la critica giornalistica a essa dedicata; tentano di sbrogliare dubbi e falsi miti intorno al videogioco, cercando di sgomberare il campo da equivoci concettuali e allarmismi debilitanti. Più interessante ancora, dimostrano - con i numeri alla mano – come lungi dall'essere un gioco per preadolescenti su uno schermo video, il consumo di videogiochi coinvolga sempre più adulti, di ogni età e genere: di 130 milioni di giocatori, appena il 18% è minorenne, con percentuali ripartite quasi equamente tra maschi e femmine.
Questi numeri sono anche il punto di partenza per un'analisi più approfondita su chi siano i ʻgiocatoriʼ, sin troppo spesso incasellati in rigide categorie di marketing che non corrispondono alla realtà, e sulla critica giornalistica videoludica, bisognosa, secondo i due autori, di una profonda analisi di coscienza e rinnovamento interiore, fossilizzata su modelli decennali e incapace di stare al passo con un medium in continua evoluzione, che vede affiancare giochi semplici come Pong (Atari, 1972) a opere profonde e drammatiche come Mass Effect (BioWare, 2007) e Heavy Rain (Quantic Dream, 2010). Dimostrano poi come la maggior parte della accuse rivolte ai videogiochi siano infondate e rischino solo di offuscare l'abilità creativa di un medium capace di produrre potenzialmente, al pari di letteratura e cinematografia, pessime opere o capolavori; mostrano inoltre come non sia da trascurare anche la possibilità di un uso didattico del videogioco, mezzo interattivo ideale per una nuova generazione di studenti, quella dei ʻnativi digitaliʼ individuati da Mark Prensky nel 2001.
È a questo punto, per evitare ulteriori incomprensioni e per permettere un superamento dei vecchi schemi concettuali, che i due autori suggeriscono un cambio di terminologia e una nuova definizione, in grado di ristrutturare cognitivamente Pong quanto Mass Effect: non più – o meglio, non solo - ʻvideogiocoʼ, ma ʻopera multimediale interattivaʼ.
Il testo si inserisce sulla scia dei numerosi studi intorno al videogioco e ai suoi effetti, ma la sua lettura non è esaustiva in sé e se ne consiglia un'integrazione con ulteriori approfondimenti personali, poiché alcuni passaggi potrebbero risultare un po' oscuri per chi ha scarsa o alcuna confidenza con il medium videoludico; anche per questo si consiglia di non saltare l'imponente introduzione di Michele Rak, che con un'argomentazione esauriente getta ulteriore luce sul videogioco, sulla sua evoluzione, le sue caratteristiche e le influenze. È anche da segnalare come le parti dell'opera che trattano le influenze psicologiche del medium videoludico siano spesso superficiali e incerte. Resta comunque indiscusso il merito dello sforzo di far riconoscere una dignità culturale al videogioco, e ciò costituisce un punto di partenza basilare per una riflessione socioculturale, comunicativa e giornalistica finora troppo trascurata.