Martina Volpe
Il lavoro di Donatello Santarone si colloca nell’ambito della didattica interculturale, settore di studi sulle tematiche connesse all’insegnamento/apprendimento in un contesto multiculturale, senza dubbio la risposta più appropriata del pensiero pedagogico contemporaneo ai problemi posti dalle società plurali e multietniche.
Didattica e intercultura e Le catene che danno le ali sono due testi che riflettono su una nuova dimensione della didattica che si è venuta ad aggiungere a quelle già esistenti in forza della presenza nelle nostre scuole di circa 800.000 allievi con cittadinanza non italiana. La didattica interculturale, secondo la definizione che ne da Santarone, è «la forma di mediazione educativa tra la condizione socio-culturale dei soggetti che apprendono e la dimensione globale dei saperi, dell’economia, della politica, della società, della cultura» .
In questa disciplina diventa dunque fondamentale individuare e realizzare metodi educativi che possano includere nella studio della storia del mondo la storia delle singole minoranze e differenze. In un contesto planetario sempre più mosso e differenziato, la sfida posta alla didattica contemporanea si risolve nel tentativo di accogliere l’invito di Comenio di “insegnare tutto a tutti”, ossia di mettere a punto metodi di apprendimento che possano essere idonei ai discenti più diversi in termini di età, lingua, sesso, pratiche religiose, orientamento sessuale, classe sociale.
I due libri di Santarone si mostrano quindi particolarmente utili in quanto strumenti di orientamento intorno ai temi cruciali dell’educazione interculturale: in Didattica e intercultura l’autore presenta un’antologia di testi in relazione a possibili percorsi di didattica (questi i temi presentati: emigrazione italiana, colonialismo e imperialismo, l’Altro non occidentale, globalizzazione, razzismo, immigrazione) servendosi della penna di poeti, giornalisti e politici. In Le catene che danno le ali l’autore preferisce invece approfondire il contributo letterario di alcuni autori (Gardner, Moravia, Pasolini, Fortini, Zanzotto, Saro-Wiwa) o meglio, di alcune loro opere usate come lenti per osservare e riflettere sul nostro presente contemporaneo, nell’obiettivo di delineare una proposta di didattica interculturale applicata alla letteratura.
allI caratteri della propedeuticità alla materia sono presenti in Didattica e intercultura, pubblicato nel 2012, che assolve al compito di dotare ogni lettore degli strumenti idonei per comprendere la necessità di una proposta didattica attenta e sensibile ai cambiamenti del tempo. Santarone sviluppa la materia muovendo dalla centralità che la didattica ha assunto tra il XIX e il XX secolo, a seguito dei noti eventi epocali (l’illuminismo, la rivoluzione industriale, il liberalismo, il marxismo): la diffusione della cultura come strumento di lotta e di accesso alla conoscenza è stato senza dubbio il principale fattore di civilizzazione di questo periodo, e non è un caso se nei primi decenni del Novecento si registra un forte incremento delle ricerche pedagogiche, al fine di migliorare l’apprendimento. In particolare la ricerca pedagogica e glottodidattica ha conosciuto una vera “rivoluzione copernicana” quando tramite l’esperienza di John Dewey è stato spostato l’accento della riflessione dai problemi legati all’insegnamento (tecniche e metodi per trasmettere il sapere) a quelli legati all’apprendimento, ribaltando il punto di osservazione dal maestro all’allievo. Nelle riflessioni di Dewey diventa centrale il punto di vista del discente e si lavora affinché il contesto di apprendimento possa suscitare la curiosità, l’interesse e la creatività del soggetto che impara. Questo approccio educativo si è dimostrato particolarmente versatile nei confronti del nuovo pubblico da scolarizzare, formato in grande parte dai figli delle classi subalterne. La sfida più grande della didattica novecentesca è stata quindi quella di misurarsi con nuove diversità educative e di elaborare percorsi di insegnamento a misura di esse, che potessero includere le diversità più radicali: dalle diversità di genere (l’accesso delle donne all’istruzione rappresenta senza dubbio la più grande novità all’interno dei sistemi formativi), alle diversità religiose (anche se nei fatti in Italia vige la religione cattolica), dalle diversità di classe sociale a quelle di età e a quelle psico-fisiche (l’handicap). In questo elenco delle diversità, ultimi a fare il loro ingresso nella scuola italiana sono i figli dell’immigrazione, la cui quantità numerica rende necessario per la didattica un ulteriore sforzo di riflessione e di adattamento ai nuovi contesti storico-sociali. Così a partire dagli anni Settanta nella scuola si è cominciato a riflettere sull’istruzione individualizzata, ossia su percorsi educativi “tarati” sui discenti, sulle loro competenze e sulle loro attitudini, per indirizzare l’insegnamento verso la soddisfazione degli individuali fabbisogni e su questi costruire percorsi educativi mirati. Questo approccio è diventato visibile nelle scuole italiane elementari, specialmente a partire dal 1985 quando all’interno dei programmi scolastici è stata evidenziata la centralità dell’uso dei differenti linguaggi comunicativi: quindi a fianco a quello verbale e scritto, il docente promuove anche il linguaggio musicale, motorio, grafico. Senza dubbio questo è stato un grande passo in avanti per l’inserimento degli allievi stranieri nelle classe italiane, dove se non si riusciva a comunicare tramite il linguaggio orale e scritto, ci si serviva di altri strumenti che potevano mettere in luce comunque le qualità degli studenti stranieri senza escluderli dal contesto classe. Santarone è però attento a mostrare i rischi che, ieri come oggi, si nascondono dietro queste offerte formative: se sono dei metodi didattici utili per permettere l’inclusione, non se ne deve però abusare, poiché il pericolo celato è quello di folklorizzare gli studenti stranieri, atteggiamento che poi conduce a una forma di razzismo differenzialista, cioè alla considerazione delle culture altrui come radicalmente inconciliabili alla nostra:
Una concezione riduttiva della pedagogia interculturale, confusa con pratiche d’accoglienza e pedagogia compensatoria, ha effetti perversi molto pericolosi sulla riuscita degli alunni e le relazioni nelle classi. Santarone mostra bene i limiti attuali del sistema educativo italiano in merito alla didattica interculturale. Infatti, sebbene si possieda uno strumento valido per i docenti italiani come l’abilitazione all’insegnamento della lingua italiana agli studenti stranieri (la L2/LS, percorso didattico formativo che permette al docente di padroneggiare le differenti metodologie didattiche a seconda della classe di discenti), purtroppo manca ancora in Italia una diffusa consapevolezza dell’importanza di tale abilitazione, complice il Ministero dell’Istruzione, poiché non esiste un riconoscimento ufficiale della figura professionale dell’insegnante di italiano L2/LS. Gli effetti di questa lacuna sono perfettamente visibili all’interno delle classi miste: malgrado l’elevato numero di studenti stranieri nelle scuole italiane di ogni ordine e grado non esiste una cattedra di Italiano L2, e quindi ai docenti abilitati all’insegnamento in contesti multiculturali non è consentito lavorare all’interno delle istituzioni scolastiche, ossia laddove servirebbe.
Queste inadempienze dello Stato italiano ci mostrano quanto lunga è ancora la strada da fare sulla via del riconoscimento dell’Altro: bisogna diventare consapevoli che la nostra non è una storia monoetnica o anche eurocentrica, ma una storia che deve saper dialogare con le storie degli altri popoli all’interno di una dimensione internazionale del sapere. Si tratta quindi di conoscere gli “altri” nelle relazioni che essi hanno avuto con “noi”, in uno sforzo conoscitivo paritario.
Questi obiettivi didattici richiedono inevitabilmente un’educazione che sia capace di critica, di contestazione dell’ordine delle cose esistenti e di elaborazione di un nuovo modello sociale che rimetta al centro del discorso politico l’esigenza di una didattica di qualità, senza la quale l’istruzione italiana, e con essa la società delle merci di cui si fa ancella, è chiaramente condannata al collasso.
L’impegno per una didattica di qualità assume così i caratteri della lotta politica in un’epoca, come quella odierna, in cui il capitalismo pervade tutte le dimensioni dell’esistenza. Questa pressione mercantile diventa manifesta all’interno delle istituzioni formative, dove si punta a un progressivo impoverimento della scuola e dell’università pubblica per favorire i luoghi esclusivi della formazione, il mondo dei privati e delle élite sociali, luoghi deputati unicamente alla riproduzione delle scale delle differenze e alla conservazione dello stato vigente. Didattica e intercultura è dunque un’occasione per affrontare simultaneamente questioni tanto complesse quanto urgenti e attuali quali il diritto allo studio per tutti, la gestione pubblica dell’istruzione, l’universalità del sapere.
Le catene che danno le ali, edito nel 2013, si presenta come uno sviluppo dei temi fino a ora affrontati e come uno slancio verso un’applicazione della didattica interculturale alla letteratura che possa veicolare contenuti diversi da quelli dominanti. Se il compito della didattica è quello di mediare tra la natura dell’allievo e la cultura della società, questo compito è oggi reso assai più arduo dalla presenza invasiva del sistema dei media, che nella sua attività di informazione, comunicazione e intrattenimento svolge un pericoloso ruolo persuasivo, volto a trasformare il pubblico discente in consumatore passivo, in un contesto in cui i confini tra marketing, didattica e comunicazione tendono a sfumarsi. Per respingere questa commerciale comunicazione didattica, Santarone propone – attraverso la mediazione della grande letteratura – modelli educativi alternativi che possano trasmettere una visione internazionalista della comunicazione e del sapere, da contrapporre ai grigi individualismi e nazionalismi in cui tendono a chiudersi i saperi occidentali. L’incontro con l’Altro e con una diversa cultura diventa il “fattore di superamento della mercificazione e dell’alienazione dell’essere umano”, come scrive l’autore nella nota introduttiva al libro.
La scelta dei testi offerti compiuta dall’autore colpisce in ragione della loro differenza. Santarone affianca ai viaggi in Cina, compiuti dallo psicologo e studioso Howard Gardner, la scoperta dell’India dei due scrittori italiani Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini; alla riflessione internazionalista del poeta Franco Fortini risponde l’impegno politico militante dello scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa; e in questo singolare percorso didattico emerge un eccentrico della nostra lingua italiana come il poeta Andrea Zanzotto. Isole di studio, privilegiati punti di osservazione dai quali descrivere e immaginare oggi l’uomo onnilaterale di Marx.
Nel saggio dedicato al libro To Open Minds Chinese Clues to the Dilemma of Contemporary Education di Gardner, Santarone mette in evidenza l’apertura mentale che contraddistingue l’autore statunitense, il quale conduce – lungo i suoi quattro lunghi soggiorni cinesi – un confronto serrato tra il sistema educativo americano e quello cinese. Di questo dialogo a Gardner interessa il processo creativo, ossia i metodi didattici utilizzati nelle due distinte culture per conseguire l’abilità creativa, trovando davanti a sé due percorsi didattici completamente opposti: quello cinese è volto a raggiungere la creatività dell’apprendente mediante l’acquisizione delle abilità di base, mentre quello statunitense è volto a stimolare il gusto dell’esplorazione, della ricerca libera e sganciata dalla regola. Dunque due metodologie diametralmente opposte, la prima fondata sulla ripetizione della norma e la seconda sulla sua infrazione e innovazione. Gardner di fronte al sistema educativo cinese, così radicalmente differente da quello da cui proviene, non si ritrae offeso o disturbato ma anzi ne è attratto e affascinato, colpito dalla capacità che esso mantiene di riuscire a innovare un gesto artistico pur restando nella tradizione, senza doversene distaccare con forza come invece avviene nella tradizione artistica del Novecento. Così il rapporto tra esecuzione e innovazione diventa la lente con cui guardare le differenze tra Oriente e Occidente. Se per noi occidentali la funzione dell’arte consiste nel mostrare con forme diverse la realtà conosciuta, nel sistema cinese l’arte è vissuta come mezzo per educare il buon cittadino: dunque alla finalità formale si contrappone quella etica, e la constatazione non è priva di rammarico per Gardner al quale non sfugge come parte delle odierne scienze educative abbiano perso la capacità di riflettere l’ideale di uomo e di donna al quale tutte le attività sociali dovrebbe tendere. Un incontro che nasce non da una distaccata ed esotica curiosità etnografica ma dalla convinzione che attraverso lo studio del sistema educativo cinese possano venire stimoli e suggestioni per migliorare il nostro sistema di istruzione. Studiare un’altra cultura per meglio comprendere la nostra, conoscere l’“altro” per meglio conoscere se stessi. È questo l’obiettivo perseguito da Gardner che tramite la sua opera invita i lettori ad abbracciare una prospettica educativa interculturale e internazionale, a possedere un approccio sovranazionale di fronte a temi globali quali l’ambiente, il nucleare, il lavoro, l’educazione. I saggi seguenti si offrono al lettore come utili mappe per leggere autori noti della letteratura italiana e mondiale attraverso la chiave dell’intercultura. Di Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini l’autore ci racconta il viaggio in India compiuto – insieme a Elsa Morante – nel 1961. Frutti di quell’esperienza sono due libri diversissimi, che consegnano due modi opposti di guardare l’Altro: l’atteggiamento vitalistico, legato ai sensi (e quasi “olfattivo”) domina nella pagine pasoliniane di L’odore dell’India, mentre una prosa molto più controllata e distaccata, seppur attenta, caratterizza l’impegno di Moravia in Un’idea dell’India. Santarone ci fa notare come entrambi gli autori dedichino attenzione al tema della religione in India, probabilmente perché influenzati da uno stereotipo orientaleggiante che vuole l’India come il regno dell’ascesi mistica, e indica – assieme al Nobel indiano per l’economia Amartya Sen – nel colonialismo britannico il principale responsabile di tante immagini distorte dell’India. Santarone può così introdurre il tema del colonialismo inglese, la dominazione che per secoli ha impedito alla popolazione indiana di scrivere la propria storia, di esistere e di diventare parte sociale. Bisognerà aspettare l’indipendenza dell’India dalla corona britannica (1947) e la nascita negli anni Ottanta degli studi sulla subalternità per conoscere il vero volto della popolazione indiana, e con esso il ruolo svolto dalle masse di contadini nello svolgimento della politica indiana coloniale e post-coloniale. Il rapporto tra colonizzatore e colonizzato è anche al centro della riflessione di un altro autore italiano, Franco Fortini, che nel 1965 pubblica Profezie e realtà del nostro secolo. Testi e documenti per la storia di domani, un’antologia di quaranta testi che Fortini raccoglie e che documentano lo stato del mondo negli anni del neocapitalismo, esplorando le forme di dominio neocolonialista, le relazioni tra l’Occidente e le altre culture, la dialettica fra identità e diversità, le ultime esperienze di emancipazione umana provenienti dalle regioni periferiche del mondo. I saggi raccolti da Fortini nella sezione Riconoscimento e Diversità mostrano come la lotta per l’affermazione identitaria sia stato uno dei fenomeni culturali più rilevanti degli anni Sessanta, e solamente una lettura politica interculturale permette di capire come i movimenti anticolonialisti e antirazzisti abbiano cambiato il volto del mondo. Infatti nel giro di pochi decenni la storia mondiale non sarebbe stata più la stessa: la rivoluzione della Cina maoista, l’indipendenza dell’India, la nascita di nuovi stati africani, la rivoluzione cubana, le lotte imperialiste in Indocina; tutti questi popoli insieme hanno fatto il loro ingresso nella storia mondiale. D’altronde Fortini è sempre stato animato da una ricerca intellettuale priva di limiti, che abbracciava le materie più diverse per meglio conoscere le cose del mondo e per poter poi trasmettere al numero più vasto di lettori la “verità”, nemico del sapere aristocratico e intimamente persuaso dall’idea gramsciana del sapere comune e antispecialistico. Saper dire la verità e divulgare la conoscenza sono stati i tratti distintivi pedagogici nel discorso dell’intellettuale marxista. Un poeta italiano del nostro Novecento particolarmente attento al rapporto tra poesia e pedagogia è stato Andrea Zanzotto, della cui opera Santarone elegge Ecloga IX Scolastica, Misteri della Pedagogia, La maestra Morchet vive e La maestra Morchet vive? come momenti compositivi emblematici di questa tensione. Per Zanzotto la pedagogia è innanzitutto un luogo atto alla comunicazione e all’incontro con l’altro, un modo di offrirsi al mondo, e probabilmente il suo orizzonte creativo è stato molto impressionato dall’attività di insegnante, preside e formatore che svolse per tutto il corso della sua vita. Il poeta indica nella relazione educativa – rapporto tra docenti e discenti – il momento in cui si rendono visibili tutte le contraddizioni che caratterizzano la realtà e di fronte a questa irruzione ci si trova spesso impotenti e muti: Nell’attività pedagogica […] si è là che si parla a chi sta nel futuro, ci si intrattiene o si pretende di intrattenersi con coloro che, ignoti a se stessi ed agli altri, più che tabula rasa sono tabula “aliena”, sono tabula fatta di un materiale assolutamente imprevedibile, sono impastati di ignoto di futuro e di nulla. L’ultimo saggio presente nel testo di Santarone è una lettura del romanzo Sozaboy dello scrittore, giornalista e militante politico Ken Saro-Wiwa che centra l’attenzione sui temi della guerra, dell’ambientalismo, della lotta al razzismo e al capitalismo. Sozaboy è un romanzo sulla guerra del Biafra, una pagina crudele della storia africana post-coloniale, una guerra che si è scatenata in Nigeria a seguito della scoperta di ricchi giacimenti petroliferi nella regione sud-orientale della nazione: gli interessi delle multinazionali e quelli delle forze politiche hanno creato le premesse per lo scontro in Nigeria e per la nascita, nel 1967, dello stato secessionista del Biafra. Di questa storia, come di moltissimi altri fuochi africani, ben poco si viene a sapere tramite i media occidentali, che pare non abbiano abbastanza spazio nei palinsesti televisivi o nei menabò dei giornali. Soprattutto ciò che manca in Italia e in Occidente è la consapevolezza del lascito di lunga durata del colonialismo (inglese, francese, olandese) nelle società e nell’immaginario simbolico delle popolazioni africane, che temono lo Stato e il governo perché la politica è stata sempre gestita da forze straniere, forze con cui le società non si sono mai integrate. Santarone, per introdurre il lettore al romanzo di Saro-Wiwa utilizza le corrispondenze giornalistiche di uno scrittore italiano, Goffredo Parise, pubblicate nel 1969 sul «Corriere della Sera» e poi pubblicate nel volume Guerre politiche, di cui riportiamo un breve estratto, utile a comprendere l’alta posta degli interessi in gioco: Fino a che punto la secessione del Biafra è spontanea, e cosciente e popolare, nata dal moto centripeto e auto difensivo di un popolo e fino a che punto è lecito sospettare che in quella secessione, in questo piccolo paese la cui geografia coincide con le regioni più ricche di petrolio di tutta la Nigeria, si innestino interessi privati, locali e stranieri? […] In Biafra non si muore di fame soltanto nei campi di raccolta che contengono seicentomila profughi, ma nei villaggi all’interno della foresta dove se ne accumulano e vagolano altri tre milioni e mezzo. […] Nella città invece, i ricchi, i potenti, gli zii Tom come li chiama Malcom X, che hanno studiato in Inghilterra o nei colleges di Lagos, e altri, uno stuolo di profittatori, mercantucci, contrabbandieri, mangiano. Il lavoro di Santarone ha dunque il notevole merito di proporre moltissimi spunti di riflessione, di interrogare il suo lettore sulla concezione che lui stesso ha delle verità del mondo. L’autore in Le catene che danno le ali organizza un’ipotetica tavola rotonda alla quale sono invitati a sedere gli educatori statunitensi e quelli cinesi, i contadini indiani e i colonialisti britannici, i marxisti italiani e i sovietici comunisti, le classi di studenti italiani e gli abitanti dei villaggi di Dukana. E insieme a loro siede il lettore italiano, che di fronte a tutte queste storie diverse non può non riconoscere la parzialità del suo punto di vista, dell’uomo europeo di fronte al mondo.