Mattia Della Rocca
Negli anni ’70 del secolo scorso Ludovico Geymonat, difendendo l’epistemologia del materialismo dialettico, sosteneva con forza che ogni processo conoscitivo si caratterizza per l’attenzione sincronica verso i suoi due grandi protagonisti, l’oggetto e il soggetto della conoscenza, protagonisti alternativamente e arbitrariamente dimenticati dalle filosofie idealistiche e da quelle fenomenistiche, «le quali proprio perciò non riescono a cogliere l’autentica natura del conoscere» (Geymonat, 1975, p. 105). Nell’ottica materialista la conoscenza, fuori dalle illusioni della metafisica e del sensismo, si definisce come processo e si genera nella tensione tra questi due poli reali della prassi scientifica: ed è proprio attraverso il carattere attivo dell’interrogazione dell’uomo sulla natura (così come delle risposte che, attraverso gli strumenti d’indagine, questa fornisce al ricercatore) che si configura l’integrazione del “fare-conoscere” che, se da un lato pone dei limiti gnoseologici – e temporanei – ¬ alla scienza come prassi storicamente determinata, garantisce la possibilità – permanentemente accessibile – di una sua progressione come attività umana nella storia. Se il materialismo dialettico di cui Geymonat faceva l’apologia non aveva problemi a riconoscere questa peculiarità dell’agire scientifico, ciò era possibile per la sua intima e imprescindibile connessione con il materialismo storico. Eppure, nell’immagine della scienza (sensu Rossi, 1996) contemporanea, la temporalità della conoscenza è, ancor prima che messa in discussione, omessa, negata, ignorata. A eccezion fatta per gli storici delle scienze –anch’essi ormai tollerati solo finché giustificatori del presente, in un supposto ruolo di “cacciatori di antecedenti” che ancora si vorrebbe attribuire agli studiosi di questa disciplina (e nonostante nel Secondo Dopoguerra la storiografia e la filosofia della scienza abbia espressamente denunciato il “virus del precursore”; cfr. Canguilhem, 1952, Clark, 1959) – l’Occidente degli inizi del XXI secolo fa fatica ad accettare che la conoscenza, ben lontana dall’essere l’insieme definitivo di Verità positive e iperuraniche, è prima di tutto il risultato dell’azione delle civiltà nella loro dimensione storica – e dunque, per definizione, fallibile, emendabile, in divenire.
Ne L’evento e l’osservatore, riedito per i tipi di ETS a distanza di venticinque anni dalla sua prima pubblicazione, Alfonso Maurizio Iacono riflette proprio sul problema della storicità della conoscenza, offrendo al lettore una panoramica d’insieme sulle teorie che, da Vico a Smith, da Marx a Mauss, hanno caratterizzato il pensiero moderno su questo tema. Attraverso i saggi che compongono il volume, il lettore ritrova evidenziati i nodi cruciali di una problematica che è stata e resta centrale nella filosofia della storia, messi però a paragone – in una prospettiva radicalmente inedita per il pubblico degli anni della prima comparsa dell’opera, a prescindere dal loro livello di specializzazione – con le teorie dell’organizzazione degli organismi e dei sistemi in biologia.
La scuola francese di epistemologia e storia delle scienze, a cui il lavoro di Iacono per molti versi si richiama apertamente, ha sempre considerato fondamentale la messa alla prova della filosofia sul banco dei problemi del sapere scientifico. In questo caso particolare, la comparazione assume però un rinnovato dinamismo e un’ancora maggiore valenza euristica, perché le scienze della vita e quelle storico-sociali condividono un curioso destino, che le caratterizza dalle origini e che inerisce loro in maniera costitutiva: a differenza di molte altre discipline d’indagine elaborate dall’uomo, infatti esse hanno sempre avuto più difficoltà a nascondere agli attori che la animano la loro inclusione nell’oggetto di studio. Si pensi alle scienze cognitive, dove la mente che studia se stessa costituisce il principale ostacolo epistemologico alla creazione di modelli univoci universalmente validi per spiegarne il funzionamento, determinando la frammentazione cronica di paradigmi, teorie e metodi di indagine (Morabito, 2007). La presenza dell’osservatore nel contesto di osservazione e la questione dell’autonomia sono affrontate dall’autore alla luce delle teorie sull’autopoiesi proposte negli anni ’80 del secolo scorso da Humberto Maturana e Francisco Varela: in un’estensione concettuale dell’autorganizzazione degli organismi viventi, l’opera di Iacono offre una chiave di lettura complessa e tuttavia chiaramente accessibile al problema della distanza implicita e necessaria tra evento e osservatore. Distanza che, rifiutando l’illusione di una Verità oggettiva e assoluta (cioè sciolta dai legami col soggetto della conoscenza) non cede mai all’agnosticismo metafisico di matrice idealista, ma costruisce in se stessa le regole della sua organizzazione, ridando dignità – ai limiti e nei limiti – alla dimensione biologica e culturale della conoscenza umana nel suo progredire storico.
La riedizione de L’evento e l’osservatore si inserisce, in questo senso, nella dimensione di un dibattito estremamente vitale – e per molti versi necessario – interno alla comunità scientifica, cioè quello dell’interdisciplinarietà come risorsa cruciale per l’avanzamento delle conoscenze, disvelandone inoltre una forte e fondamentale implicazione politica. Non riconoscere il valore dello scambio tra discipline, nella nostra epoca, costringe alla definizione crescente dei contorni di frontiere, che si rivelano difficilmente valicabili da un’unica prospettiva. Eppure è proprio sulla frontiera, conoscitiva ed epistemologica, che le scienze riscoprono il valore dei propri limiti – e nel sottolineare questo punto sta il merito del lavoro di Iacono – e dunque un errore ancor più grave dell’isolamento disciplinare può generarsi con facilità dal mancato riconoscimento della dimensione storica e culturale di quelle conoscenze che vengono messe in gioco nell’intersezione tra diverse branche del sapere. Per garantire una comprensione critica e costruttiva dei fenomeni presi in esame, acquisisce dunque un rilievo primario la riflessione sui vincoli e le dinamiche che caratterizzano il rapporto tra scienza e società, tra “fatto scientifico” à la Fleck (1935) e cultura che lo delinea, lo osserva, lo subisce, lo trasforma in strumento. Un esempio significativo, che agisce su più livelli, ci sembra provenire dalle recenti politiche statunitensi in materia di ricerca, innovazione e sviluppo. Come è noto, nel secondo decennio del XXI secolo, si è potuto assistere a un radicale serrarsi del dialogo tra una parte della comunità scientifica e il mondo della politica (cioè il sequitur dell’economia): ma ciò è avvenuto – come denunciato già qualche anno fa da Martha Nussbaum nel suo Not for Profit (2010) – in una direzione che ha arbitrariamente e violentemente escluso la riflessione umanistica da questa rinnovata consapevolezza del rapporto tra scienza e società. L’impegno, reso pubblico all’inizio del 2013, dell’attuale Presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama a finanziare il progetto Brain Research through Advancing Innovative Neurotechnologies (BRAIN) è per molti versi un esempio paradigmatico di questa tendenza. L’ammirevole obiettivo di ideare e costruire nuovi modelli teoretico-sperimentali e strumenti di imaging finalizzati al miglioramento delle conoscenze sul cervello e al perfezionamento delle ricadute terapeutiche, a una lettura profonda dei fact sheets governativi e alla luce di un’analisi storica ed epistemologica come quella descritta da Iacono, rivela pieghe più profonde. Non appena considerato come evento, esso rivela infatti l’implicita epistemologia che è propria degli attori sociali che lo agiscono, disvelando i paradigmi di un’organizzazione politica – quella del capitalismo globale – che non ha mai messo in seria discussione il suo approccio essenzialmente positivista e riduzionista, che continua a privilegiare dei modelli del tutto in linea con gli standard economici e sociali che storicamente lo caratterizzano nella gestione dei processi produttivi e culturali (anche nella sua fase attuale di digitalizzazione e virtualizzazione delle merci)[1], e che ritiene essere il fulcro della sua stessa sussistenza. Mentre i trend attuali della ricerca sulla mente e sul cervello mettono l’accento sul ruolo enattivo dell’organismo nel suo ambiente, recuperando e integrando alle neuroscienze la fenomenologia e la dimensione storico-culturale nel caso dell’essere umano, il sapere-potere-istituzione (quello descritto da Foucault e, in primis, da Marx) orienta i suoi sforzi in un’altra direzione, quella del Körper, il corpo anatomico, e non del Leib, il corpo vissuto. Ciò avviene in accordo con una visione del mondo che mira a una perfetta padronanza delle conoscenze biologiche, viste illusoriamente come “sapere neutro”, da poter utilizzare per ottimizzare e rendere più longevo il profitto dell’individuo e della collettività – in termini di anni di vita, di funzionalità sociale, e in ultima analisi, di accumulo di plusvalore. Ma soprattutto, il progetto BRAIN cerca – per usare le categorie elaborate da Droysen nel XIX secolo e ampiamente commentate da Iacono nel saggio – un cervello da “spiegare”, ignorando la sua sostanziale identità attiva con una mente che deve essere necessariamente “compresa”. In questo ritorna, puntualmente, il paradigma del distacco dell’osservatore – sempre «presunto e simulato» (p. 53) – che nelle scienze biomediche, come ricorda ancora Iacono, era già stato significativamente criticato da Claude Bernard.
Sottolineare l’importanza della complessità nel rapporto tra evento e osservatore, tuttavia, non limita la criticità di questa riflessione al presente visto dal presente.
Il valore di un’opera si riconosce anche, e per certi versi soprattutto, dalla capacità che ha di leggere e interpretare la “realtà-che-viene” (Agamben, 2001), oltre al mondo in cui essa viene ideata e realizzata. Nel campo delle scienze sociali, è recentemente salito alla ribalta il caso di Arjun Appadurai e del suo Modernity at large (1996): l’opera offriva uno studio lucido e minuzioso delle dinamiche socio-culturali che caratterizzano oggigiorno il mondo globalizzato “della crisi”, preconizzando a un lustro dagli eventi del G8 di Genova le forme e gli strumenti attraverso cui il modello post-fordista si sarebbe articolato nella nostra quotidianità, e contemporaneamente confutando ante litteram le interpretazioni dei più recenti Impero di Antonio Negri e Michael Hardt (2003) e No Logo di Naomi Klein (2000) che sebbene ampiamente riconosciute dal “movimento dei movimenti”, non riuscirono a superare il reality check della storia. L’evento e l’osservatore è un’opera che possiede una capacità analoga a quella del volume di Appadurai poiché, nell’adozione di un paradigma consapevole dell’epistemologia della complessità, diviene capace di estendere la sua analisi fino ai giorni nostri. Scrive l’autore che «un sistema come il nostro, che ha bisogno per sua natura di rivoluzionare se stesso, di trasformarsi per perpetuarsi, non può negare il cambiamento: può però renderlo debole» (p. 73) e identifica lo strumento attraverso il quale il capitalismo può conseguire questo scopo nell’artificiosa e ripetitiva ridondanza dell’informazione. Questo tema è stato ampiamente descritto e analizzato nel corso del primo decennio del XXI secolo, sottolineando – nell’estetica – il regime di storicità della “comunicazione-trauma” proprio della società dello spettacolo 2.0. (cfr. Perniola, 2009) e nella critica politica gli effetti della disintegrazione dell’evento sul Dasein individuale e collettivo (cfr. Tiqqun, 2009). L’evento e l’osservatore affrontava già nel 1987 questa problematica, con due anni di anticipo rispetto al crollo del Muro di Berlino, mettendo in luce la necessità di un atto di interpretazione/comprensione che tenesse conto del delicato e sfuggente, ma necessario, rapporto tra soggetto e oggetto dell’osservazione. Nell’affermazione della complessità della storia, che come nel caso della mente è sempre topos di una meta-riflessione, l’opera di Iacono dà vita a una lettura del reale che è più di un evento-sugli-eventi, poiché si rivela strumento interpretativo prezioso – non semplicemente critico e calato nel contesto storico, ma critico perché storicamente determinato – delle modalità in cui l’essere umano può guardare al suo essere nel mondo, come conoscitore e creatore della storia.