Antonio Perri
Nell’ultimo quarto di secolo la tematica della scrittura in rete è stata oggetto di una letteratura nutrita quanto eterogenea: un po’ come se sulla riflessione critica “meta” dedicata al testo digitale fosse destinata a pesare l’identica ipoteca che ha gravato sulla natura del medium analizzato – ossia una liquidità baumaniana a dire il vero sin troppo abusata, alla quale tuttavia Giuliana Fiorentino fa da subito riferimento nel suo ardito tentativo di esplorare quelle che, ormai, sono pratiche troppo diverse ed eterogenee perché si possa sperare di inquadrarle tutte entro una cornice teorica onnicomprensiva e generalizzante.
Il problema della letteratura sulla scrittura digitale (quest’ultima, per lo più, si identifica ormai con la scrittura in rete, sebbene si tratti di un’identificazione quanto mai abusiva) è in effetti la difficoltà di selezionare un approccio pertinente nel mare magnum delle suggestioni interpretative di volta in volta disponibili: si va dalle ampie prospettive massmediologiche di ascendenza sociologica (quelle à la de Kerckhove, per capirci) alle argomentazioni device-centered le quali – anche quando siano sorrette da ampi scenari come quello antropologico della ormai consunta orality-literacy theory o quello di un’ergonomia dei supporti di lettura storicamente avvertita, come nel caso del pregevole La quarta rivoluzione di Gino Roncaglia – finiscono spesso coll’affastellare eccessive technicalities perdendo di vista il processo (di produzione del testo) a beneficio del prodotto. Quando poi si sceglie di non scegliere, il risultato di tali analisi “a tutto campo” confluisce spesso in testi eclettici anche se interessanti, che provano con alterne fortune a giustapporre una (micro)-storia della scrittura e delle tecnologie di produzione dei testi (chirografici, tipografici ma anche visivi e audiovisivi) a osservazioni psicologiche, paleografiche, di sociologia dei media e della lettura – sto pensando, fra i molti, al pur gradevole libro di Alessandra Anichini Il testo digitale.
Un sicuro pregio del volume della Fiorentino consiste nell’individuare da subito il taglio disciplinare a partire dal quale analizzare il fenomeno della scrittura in rete (eludendo tout court, a mio parere correttamente, un’analisi esaustiva della scrittura elettronica off line che pone problemi diversi e, nel complesso, più simili a quelli dello scrivere “tradizionale” in ambienti alfabetici): «sono una linguista», afferma infatti, e «in questa chiave mi occupo qui di scrittura» (p. 15), riecheggiando il noto linguista sum di jakobsoniana (e terenziana) memoria, ma conservandone in filigrana la professione di apertura ed eclettismo implicita nella seconda parte dell’aforisma (nihil linguistici mihi alienum puto). Per questo l’impostazione della prima parte del volume, nella quale si introducono sinteticamente le principali questioni teoriche relative alla scrittura per il web, è incentrata su un’inedita ed efficace analisi prima facie linguistica della scrittura in rete come processo: decisamente stimolanti appaiono, in questa prospettiva, le dense pagine del secondo capitolo che Fiorentino dedica a esplorare le qualità tipiche della brevità e del ricorso ai microcontenuti come tratti salienti di una pratica dello scrivere che “asciuga” il testo, oppure quelle che puntano a descrivere le strategie dialogiche della testualità in rete prendendo in esame dettagliatamente una ricca messe di esempi originali da lei stessa raccolti, e valutandone con attenzione (fatto del tutto infrequente fra i linguisti mainstream) le caratteristiche ortografiche e tipografiche in quanto rafforzano e completano quelle strictu sensu linguistiche (quali coerenza e coesione).
E tuttavia forse il carattere dichiaratamente introduttivo e manualistico del libro, nonché la necessità di non lasciarsi “sfuggire” un’audience più ampia di quella degli studenti di linguistica (vale a dire la ricca platea di chi segue laboratori e corsi di scrittura) ha indotto l’autrice a reintrodurre “in pillole” e per accenni, sia pur con valido e attento ricorso a fonti bibliografiche autorevoli, tutte le prospettive “altre” alle quali ho accennato che nel volume rimangono allo stato embrionale: la prospettiva epistemologica “oralità-scrittura”, gli aspetti tecnologici connessi ai media studies, gli aspetti cognitivi e sociologici della Computer-Mediated Communication sono, così, presentati in rapida rassegna come se l’onnivoro linguista potesse (o, meglio, dovesse) cibarsene, quasi fosse il prezzo da pagare per poter dire da linguisti qualcosa di sensato sugli usi della lingua nel web (il che, a mio avviso, è tutto da dimostrare).
Gli stessi limiti, del resto, li ritroviamo nella seconda parte del volume (quella che l’autrice denomina «operativa» e ha quale anodino titolo «La pratica»); sono, anzi, ulteriormente evidenziati dalla scelta di adottare un approccio prescrittivo piuttosto che descrittivo ricorrendo a pochissime esemplificazioni e illustrazioni, nonché da un’eccessiva brevitas (una trentina di pagine in tutto) e dall’eterogeneità dei temi affrontati: se appare legittimo e sensato che il linguista si interessi alla leggibilità e semplificazione linguistica come propedeutica a una più ampia usabilità del testo digitale, molto meno lo è volere a tutti i costi dire qualcosa di (inevitabilmente generico) su «qualità delle informazioni» (p. 136), logica ipertestuale e persino, in sole sette pagine, scelte tipografiche e di visual design (pp. 143-49). Ne risulta una definizione “operativa” dell’efficacia dello scrivere sul web che può a prima vista apparire esauriente («La lingua dei nostri testi sarà dunque semplice, chiara e concisa, lo stile sarà oggettivo, il contenuto sarà pertinente e sintetico, e la grafica e il design saranno leggibili e scansionabili», p. 119, cvi. nel testo) ma in realtà alla luce dell’elaborazione complessiva di queste pagine appare più che altro come un promettente programma di ricerca (interdisciplinare, direi, per scoraggiare una volta per tutte gli eccessi “fagocitatori” di un troppo vorace linguista post-jakobsoniano) ancora tutto da sviluppare.
Credo, in definitiva, che Frontiere della scrittura avrebbe senza dubbio beneficiato di una più radicale scelta di pertinenza, anche a costo di perdere alcuni spunti manualistici, approfondendo cioè alcuni aspetti pienamente linguistici solo accennati: se un confronto fra l’“ibridità” diamesica della comunicazione scritta in rete e le proprietà del parlato viene in più punti del testo evocato, ad esempio – anche citando l’impostazione fondamentalmente pre-digitale formulata da Halliday in Lingua parlata e lingue scritta – sarebbe stato estremamente interessante valutare con attenzione in che misura nelle diverse (e «variabili», come riconosce la stessa Fiorentino) pratiche di scrittura su web (in particolare nella comunicazione sincrona e sui social network) potessero ritrovarsi caratteristiche che per Halliday appaiono tipiche del parlato (la dispersione lessicale, ad esempio, la tendenza a rappresentare gli eventi come processi), e quanto invece l’intricatezza grammaticale del parlato risulti drasticamente limitata dall’imperativo di semplicità sintattica e leggibilità che caratterizza, come abbiamo visto, frasi e paragrafi di testi in rete sottoposti al lavoro di chunking necessario a costruire le gerarchie informative delle architetture ipertestuali. E ancora, l’allusivo riferimento finale alle massime conversazionali di Grice quali principi guida necessari a «dosare i contenuti» (p. 137) avrebbe potuto essere oggetto di un approfondimento, problematico certo ma essenziale, volto a definire alcune tra le caratteristiche pragmatiche inscritte nei testi che li definiscono in quanto processi (e prodotti) goal-oriented, inferenzialmente connessi a interpretazioni di cui le implicature derivanti dalle massime griceane non esauriscono certamente la ricchezza. In questa prospettiva, peraltro, le caratteristiche grafiche e tipografiche rientrerebbero bensì in gioco a pieno titolo, sebbene non come semplici tecniche di impostazione normativa formulate in vista di una imprecisata efficacia comunicativa ma quali frames interpretativi in grado di definire, intertestualmente, le appartenenze a generi.
Il web writing, insomma, è senza dubbio un fenomeno liquido anche nel senso che sfugge a precise operazioni di segmentazione tipologica: come premette l’autrice, «non riusciamo a fermare e incasellare [questa scrittura] nelle tradizionali classificazioni di generi testuali e di stili» (p. 12); credo allora che il pregio di un approccio puramente linguistico come quello di Frontiere della scrittura (sviluppato sino in fondo, però!) sarebbe proprio di riuscire finalmente a far ordine in questa molteplicità flessibile, adattabile ma ormai sedimentata da un trentennio e, dunque, in grado di fare emergere modelli.