Gloria Galloni
Incorporata, situata, integrata, dinamica, e biologicamente emergente: tutti, o quasi, gli studiosi di scienze cognitive, ormai, sembrano aver accolto queste come caratteristiche distintive della mente. Ciò non significa, tuttavia, aderire ad una stessa corrente di pensiero relativa al modo di intendere la mente (e la coscienza, non ad essa cartesianamente equivalente) ed il rapporto tra il soggetto, il suo corpo vivo (Leib; cfr. Husserl), ed il suo ambiente proprio (Umwelt; cfr. von Uexkull in Morabito 2010a).
La teoria della mente estesa, che negli ultimissimi decenni si è sviluppata a partire dalle fondamenta teoriche ed epistemologiche della scienza cognitiva post-classica e sul cosiddetto paradigma della mente incorporata, è più che una teoria: come sottolineano gli autori, mira ad essere un programma di ricerca. Essa è “il più radicale tentativo di ridefinizione del concetto di mente dai tempi di Cartesio” (pp. 241-2). Giusto, doveroso dunque offrirne una trattazione esaustiva e critica, a partire dalla contestualizzazione della nascita di questo nuovo approccio, nel saggio di Clark e Chalmers del 1998, per arrivare ad oggi.
Questo l’intento degli autori del testo, nel quale per la prima volta si mira a ricostruire le basi della teoria della mente estesa, gli argomenti di supporto (da quelli più speculativi, come gli esperimenti mentali di matrice filosofica, a quelli sperimentali, interni all’indagine psicologica e neurobiologica), le critiche sviluppate dai detrattori della teoria negli ultimi anni, finendo con il tentativo di rispondere ad almeno parte di queste critiche, rilanciando l’interesse (problematico) per questa che si configura come una nuova antropologia filosofica, quella dell’uomo cyborg, una “rivoluzione, che libera la mente nell’ambiente e disperde il soggetto nel mondo” (p. 8).
Un testo denso, un esercizio filosofico ottimamente riuscito, che si presenta al contempo come manuale e come saggio monografico, all’interno del quale far convergere una importante review della letteratura sul tema e una trattazione critica di questioni essenziali per la filosofia della mente interna alle attuali scienze cognitive, quali quelle sul “marchio” del cognitivo (cosa differenzia ciò che è cognitivo da ciò che non lo è?), sulla differenza tra coinvolgimento causale e costitutivo in un processo mentale, sull’impostazione funzionalista ancora prepotentemente presente nel quadro teorico di riferimento, sul soggetto delle azioni epistemiche e la natura biologica della mente (cfr. Marconi, 2005), sulle distinzioni tra intenzionalità intrinseca e derivata, sulla possibile estensione della coscienza fenomenica, sulle caratteristiche che uno strumento esterno dovrebbe possedere per ambire ad essere incluso nel sistema cognitivo, e via dicendo.
La teoria della mente estesa (da ora, come nel testo, MME) mette in dubbio, per la prima volta, il neuro-fondamentalismo (secondo cui i meccanismi neurobiologici possono spiegare la cognizione) “senza uscire dal punto di vista naturalistico, senza cadere in forme di dualismo o culturalismo post-modernista” (p. 144). Su questo punto, aggiungiamo sin d’ora di non essere d’accordo con l’affermazione per la quale il MME “permette una rivalutazione del ruolo della cultura e dell’interazione sociale complessa, ma lo fa in un contesto naturalista” (p. 7), specificamente perché tale rivalutazione è insita - a nostro parere - nelle attuali neuroscienze cognitive, ma ci ritorneremo tra breve.
Il libro è suddiviso in cinque capitoli, racchiusi tra interessanti riflessioni filosofiche poste in un prologo ed un epilogo. Ci limitiamo a fornire un quadro generale delle tematiche trattate, non potendo fare altro in questo contesto, sebbene ciascuna sezione possa prestarsi ad argomentazioni importanti. Nel primo capitolo viene soffermata l’attenzione sul contesto culturale e scientifico nel quale si pongono le basi per la nascita del modello della mente estesa. Nel secondo capitolo viene approfonditamente analizzato questo modello, in particolare tramite la lettura critica dell’articolo di Clark e Chalmers e di loro lavori successivi. Nel terzo capitolo si vira da un’analisi filosofica verso valutazioni antropologiche legate alla nuova immagine dell’uomo emergente da questo modello della cognizione (dall’uomo “neuronale” all’uomo “cyborg per natura”). Nel quarto e quinto capitolo vengono brillantemente presentate invece le critiche poste a MME (la fallacia della costitutività, il principio di parità, il già citato marchio del cognitivo, il problema della coscienza fenomenica) soprattutto da Adams e Aizawa (2001) e da Marconi (2005), nonché, laddove possibile, le risposte a queste critiche.
Ma è sin dalle pagine introduttive che la problematica di fondo di tutto il testo si fa presente, per poi riemergere come un fiume carsico in varie fasi della trattazione, sempre lì a far capolino laddove si vorrebbe sferrare una critica pervasiva a questo nuovo modello della mente. Il problema è classico nella filosofia della mente: la questione dell’identità tra evento mentale ed evento cerebrale. Nel lessico della psicologia di senso comune, sfugge totalmente, infatti, come un evento cerebrale possa essere un evento mentale, mentre è del tutto comprensibile come esso possa essere veicolo di un evento mentale. Da questa constatazione, emerge in primo luogo che nelle spiegazioni del mentale entrano in gioco fattori causali, o meglio funzionali, che conducono gli studiosi verso l’adesione al punto di vista funzionalista, e ciò fa buon gioco per MME. In secondo luogo, però, ci viene da affermare che, se veicolare è diverso da essere, allora niente di ciò che viene sostenuto da MME può dirci qualcosa sull’ontologia del mentale, dacché gli “artefatti cognitivi”, l’ambiente, la cultura, le “altre menti”, vengono anch’esse etichettate come “estensioni” in quanto veicoli della cognizione. Se la mente non è identica alle configurazioni cerebrali ma queste sono un veicolo, essa allora non è nemmeno diffusa, poiché anche l’esterno è solo veicolo. La personale conclusione di chi scrive è dunque che tutto ciò che MME può dirci di rilevante, ricade sotto un profilo epistemologico.
Nondimeno, il funzionalismo è presente, e va riconfigurato, ridefinito nelle sue tesi fondamentali, per accordarsi con teorie e dati neurobiologici. Gli autori scrivono che “se è il ruolo funzionale che caratterizza un dato stato cognitivo per quello che è, il fatto che tale ruolo sia implementato da un veicolo interno o esterno è secondario” (p. 94), ma tale asserzione sembra fare eco al primo Putnam (1973; non a caso la famosissima citazione sull’emmenthal svizzero è posta da Di Francesco e Piredda in apertura del capitolo primo) e al dibattuto argomento della realizzabilità multipla, una questione talmente mal definita da trovare proprio nella sua controversa definizione il proprio punto di maggior forza (cfr. Bechtel e Mundale 1999, Galloni 2005). Non è al funzionalismo, inteso come fondato sulla teoria computazionale e rappresentazionale della mente (con le quali chi scrive continua a considerarsi moderatamente in accordo, nei limiti delle rivisitazioni teoriche effettuate su questi concetti; cfr. Galloni 2010 sul concetto di rappresentazione), che è possibile appellarsi per giungere a conclusioni ontologiche sul mentale.
Gli strumenti esterni al soggetto rimangono esterni, anche laddove il nostro sistema cerebrale si modifichi in funzione dell’uso che se ne fa, delle abitudini. Si pensi alle modificazioni legate allo schema corporeo, che Alva Nöe (2010) pone come prova empirica per la sua visione estrema di MME, e che invece sono - così ci sembra - del tutto in linea con una più cauta prospettiva neurobiologica, quale quella difesa da filosofi come Dennett (1991, 1996) e Sterenly (2003), ed emergente nelle attuali neuroscienze cognitive. Quegli strumenti noi li “incameriamo”, ma strumenti restano. Lungi dal voler sostenere infatti che tutto ciò che è rilevante studiare per comprendere la mente è all’interno del cranio, nell’approccio dell’embodied cognition si sostiene che non è possibile analizzare solo il sistema nervoso centrale, prescindendo dalle relazioni con il corpo e con l’ambiente (fisico e culturale) nel corso dello sviluppo epigenetico.
Dunque, assolutamente in linea con un esternismo epistemologico, ma non ontologico. D’altronde, Di Francesco e Piredda giustamente fanno notare nella parte conclusiva del testo che non esistono prove empiriche che testimonino in maniera dirimente a favore di MME: l’unica forma di difesa è “per inferenza verso la spiegazione migliore” (p. 245), ma certamente assumerla come vera ha a livello epistemologico un enorme valore euristico, sia per quanto concerne le aperture nella ricerca sperimentale (si pensi a quella branca denominata Brain-Computer Interface; cfr. p. 124 e segg.) sia per alimentare la riflessione filosofica.
Lo scambio di informazioni con gli strumenti esterni (soprattutto se si pensa a quelli tecnologici di ultimissima generazione) sarà forse sempre più “ricco, fluido, bidirezionale, veloce e affidabile” (p. 246), senza per questo dover assumere che lo strumento - per quanto trasparente - sia parte del mio processo cognitivo, ma solo, sulla scia anche dei pensatori sovietici della Scuola Storico-Culturale, che il mio sistema cognitivo si modelli sulla base delle mie interazioni (cfr. Galloni 2013). Ciò vale ancor più nel caso del gesto: nel testo, esso viene proposto come qualcosa di “esterno” al pensiero, che ad esso si “estende”. In verità, siamo convinti del fatto che Clark abbia ragione affermando - nelle parole degli autori - che “i gesti possano essere considerati costituenti della base materiale del pensiero e non semplici elementi che vi contribuiscono” (p. 167), ma non che ne siano una estensione. Il gesto è pensiero in azione, e l’azione è all’origine della cognizione (Morabito 2010a, 2010b; Morabito, Galloni, Della Rocca, 2013). In linea con altri esempi riportati nel testo (tetris, scarabeo), mentre gioco a Ruzzle i miei processi cognitivi sono in inter-azione con il mio iphone, che mi supporta in maniera trasparente nel perseguire il mio scopo, coadiuvandomi nel trovare quante più parole possibili sullo schermo. Dunque, è rilevante comprendere il funzionamento della strumentazione e dei rapporti interno/esterno per spiegare come si realizzi il processo cognitivo in atto. Nondimeno, la mente è in me. Noi siamo il nostro cervello, nella misura in cui esso si modella plasticamente in base alle interazioni continue con l’ambiente.
In conclusione, vorremmo evidenziare come, nell’epilogo, gli autori ci offrano una apprezzabile riflessione sui rapporti tra filosofia e scienza della mente, mostrando come la definizione di Carruthers (2011) del suo lavoro da “psicologo teorico” - che prende le distanze dal tipo di analisi concettuale propria della filosofia analitica - sia sovrapponibile all’attuale profilo scientifico di un filosofo della mente di approccio naturalistico, che richiede “un dosato melange di analisi concettuale e ricognizione empirica” (p. 259).