Giorgio Passerone
Elisabetta Orsini colloca il suo libro sotto la protezione di un aneddoto di Infanzia berlinese, in cui Benjamin raccontava le metamorfosi – attraverso l’alternarsi dei loro ripiegamenti e dispiegamenti – di un povero calzino e di una borsa, e cominciava in tal modo a percepire il segreto dell’eterogenesi dell’atto di creazione, dove forma e contenuto, contenente e contenuto sono una stessa e unica cosa. Rivolgendo attenzione alla realtà della genesi di questo atto, Elisabetta Orsini sonda, alla lettera, lo studio dell’artista: o meglio, il blocco di spazio-tempo dell’artista-atelier, l’artista che diventa atelier e viceversa, nel senso dell’indecidibilità delle frontiere tra il di dentro e il di fuori di questi due corpi.
C’è una sorta di vertigine in questa ipotesi di fondo del libro, come testimoniano le belle pagine dedicate alla solitudine infinitamente popolata della cantina di Kafka (quella nella quale lo scrittore avrebbe desiderato potersi rintanare a scrivere): «Non occorre che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare nemmeno, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, rèstatene tutto solo e in silenzio. Il mondo verrà da te a farsi smascherare, non può farne a meno, si voltolerà estatico ai tuoi piedi».
Per organizzare questa ricerca, Elisabetta Orsini si propone di seguire un metodo che si ispira ad una lettura quasi cartesiana («anomala e giocosa»). Denomina il capitolo I atelier mentale (La stanza della mente) e il cap. II atelier fisico (La stanza del corpo). Ma è all’analisi delle variazioni che ogni gesto creativo produce nella linea astratta e vivente che collega i due ateliers che l’autrice attribuisce la sua priorità. Lo fa con un esame molto sottile di alcuni dati concreti: penso soprattutto alla bella applicazione del suo approccio nelle pagine dedicate all’atelier clochardizzato di Bacon, in cui la ricerca di un rigore dell’immagine si produce attraverso il caso fortuito, o, ancora, alle pagine sull’habitat interiore-esteriore di Italo Calvino, allorché lo scrittore si ricollegava allo spazio di San Girolamo di Antonello da Messina, o al Sant’Agostino di Botticelli (e a questo proposito, bisogna sottolineare l’interesse delle ricca sezione di immagini documentarie che accompagnano il testo e che ricostruiscono un’archeologia iconografica dell'atelier d'artista nella cultura occidentale).
La ripartizione metodologica dei due spazi, quello mentale e quello corporeo, è esplicitamente superata nel capitolo III, letteralmente risucchiato nella zona di turbolenza dei “Passages”: il lavoro nell’atelier trasforma l’artista stesso, trascinato nelle gallerie oscure di una psiche ossessionata da ogni sorta di influenze culturali ed esistenziali. L’incipit dell’opera è il gesto che viene estratto dalla memoria personale e dalla tradizione (si potrebbe parlare di uno stile indiretto libero transemiotico, da un’arte all’altra), dopo una lotta accanita contro i suoi luoghi comuni (i clichés), e questa lotta è inseparabile da una corporeità anorganica intensamente vitale – il corpo-atelier – che ha reciso i suoi legami con l’esperienza empirica. Il riferimento a Proust, indagatore dei dettagli del mondo dal punto di vista trincerato della sua camera rivestita di sughero – la sua arca di Noè – è a questo riguardo, esemplare. Ma è soprattutto in Barthes e nella sua teoria del soggetto vuoto, dell’anonimato zen del linguaggio e dei segni e del piacere del testo, nel costruttivismo dell’artista-ecceità asoggettiva di Deleuze che Elisabetta Orsini trova i suoi strumenti critici più congeniali; così come anche nell’estetica di Benjamin; o ancora nelle riflessioni di Paul Valéry sulla necessità di trasformarsi attraverso l’opera: «A che mi serve un’arte il cui esercizio non mi trasformi?». Sicché l’atelier diviene il luogo in cui viene realizzata una pericolosa operazione di costruzione e distruzione, una «spinosa metamorfosi».
E il pericolo connesso alla sua dimensione allucinatoria viene messo in rilievo nella rievocazione, in alcune pagine virtuose dedicate alla scena del crimine: la stanza del dottor Jekyll e di Mr. Hyde. Elisabetta Orsini trova tuttavia il suo “lieto fine” rilanciando nel IV capitolo la tonalità ludica di Benjamin. L’autrice vi sviluppa la questione della profonda affinità tra gioco e studio d’arte, interpretato come una forma di vita auto-referenziale (il tono è dunque wittgensteiniano), o ancora e soprattutto appoggiandosi al lavoro di Eugene Fink e alla sua idea dell’artista produttore di “estasi della vita nel mondo”. Elisabetta Orsini si impegna dunque a risalire una lunga tradizione orfica, fino a Leopardi, Lewis Carroll e Nietzsche, e poi anche attraverso Kafka, Savinio e Manganelli: la riaffermazione dell’atto creativo, gratuitamente rigoroso nelle sue regole irriducibili alle norme economiche, sociali e personalistiche, avvicina l’artista agli dèi e al mondo dei bambini e dei loro giocattoli.
Ritroviamo la ricchezza di questi temi, sintetizzata nell’appendice del volume (L’atelier di Monsieur Descartes). E tuttavia il libro suggerisce anche un’altra cosa. E ciò avviene attraverso la sua maniera di misurare letteralmente il cantiere dell’artista, fuori dal gioco della fantasia metaforica, al di là dell’analogia tra le leggi esclusive dell’atelier e l’atto inaugurale del creatore, alle quali Elisabetta Orsini sembra cedere talvolta. E avviene anche attraverso la sua maniera di problematizzare l’idea paradigmatica di tutta la ricerca: Cartesio-l’idiota, che vuole pensare, da solo, in totale padronanza di se stesso. Contro ciò, in contro-canto, Elisabetta Orsini fa riferimento al costruttivismo del “lontano interiore” dell’atto di creazione deleuziano, sempre concentrato su ciò che l’eccede – l’in-di-fuori captato dall’atelier, l’interno-di-fuori dello stesso atelier, il mondo che già c’è e non ancora della citazione di Kafka.
Questa idea ritorna discretamente da una pagina all’altra e costituisce la tonalità minore di una potente linea di fuga. Ora, è precisamente a questa linea di fuga che Elisabetta Orsini riconduce il divenire dello scrittore (dell’artista) che è sempre qualcosa di diverso dal diventare scrittore e artista: l’autrice si richiama piuttosto ai divenire-animali di Deleuze, e alle “metamorfosi omicide” di Stevenson e di Proust nel paragrafo sulla stanza del delitto.
In questo senso la concatenazione dell’atelier-artista è veramente un passaggio di vita, una intensificazione del senso comune, la follia/salute di un’altra idiozia, dall’accento questa volta fortemente nietzschiano – l’idiozia asoggettiva, anorganica e asignifiante della liberazione di forze di vita. Elisabetta Orsini non lo ha scritto, ma grazie all’accanimento e alla sensibilità del suo lavoro, tra i margini dell’atelier di Descartes, ce lo suggerisce... Ci fa pensare a Cezanne che dipinge en plein air: «C’è un minuto del mondo che passa, voglio perdermi nella montagna Sainte Victoire, captarne la placca sensibile, fino ai toni testardi delle rocce».
La necessità di questo problema, suscitata dal rigore del dispositivo di Elisabetta Orsini innerva la qualità segreta, ma per niente intimista, del suo Atelier, del suo «di dentro più profondo di qualsiasi interiorità»: di fuori, tra aree molto vaste della cultura italiana ed europea.